Banche sane per sanare la crisi
Non si tratta di difendere l'italianità della proprietà banche, bensì di non essere vittime dei propri pregiudizi.
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di Pietro Alessandrini e Michele Fratianni
Le crisi finanziarie creano gravi danni, ma offrono anche l'opportunità di correggere gli errori passati. Chi riparte può essere più forte. Dalla capacità di saper fare necessità virtù dipende il futuro e deciderà la differenza fra vincitori e perdenti.
Le banche hanno prima svolto un ruolo di spugna della crisi, assorbendo l'impatto delle imprese debitrici in condizioni fallimentari e acquistando, anche sotto persuasione morale da parte delle autorità, ingenti quantitativi di debito pubblico con credito deteriorato. Poi, impossibilitate a ottenere capitale fresco, hanno intrapreso un imponente processo di deleveraging che si è scaricato quasi solo sui prestiti alla clientela. La stretta creditizia ha accentuato la crisi delle imprese nonostante il prolungato sforzo della Bce di creare liquidità a basso costo. Sforzo non solo insufficiente, ma controproducente sull'immagine delle banche che sono state bollate dall'opinione pubblica per avere preso a prestito all'1% senza allentare il credito all'economia.
Bisogna spezzare il circolo vizioso che blocca il meccanismo di trasmissione della liquidità e renderlo virtuoso introducendo tre requisiti essenziali: più capitale, più tempo, meno rigidità nei vincoli. Il capitale serve per dare stabilità alle banche; il tempo per recuperare efficienza; la flessibilità dei vincoli per recuperare tempo e capitale. Lo scopo è di raggiungere l'obiettivo primario del risanamento entro un arco di tempo ragionevole. Alle banche che si trovano al di sotto del vincolo di capitale si deve dare tempo per rientrare nei parametri, soprattutto in questo periodo di crisi che non ha precedenti per gravità e durata. Il periodo di rientro va collegato a un piano industriale credibile e mirato a recuperare competitività rispetto ai nostri concorrenti esteri. Ci vuole tempo per ridurre i costi, cedere attività non strategiche e recuperare una redditività sostenibile.
Circa l'infusione di nuovo capitale, ciò che deve cambiare è la fonte alla quale attingere. Non si può chiedere all'economia di apportare più capitale in periodi di crisi e in presenza di bilanci bancari deficitari. Lo scarseggiante capitale privato non avrebbe prospettive di remunerazione adeguate. Ricade sullo Stato di sostituirsi ai privati con un intervento temporaneo e limitato al periodo di recessione. È un pilastro fondamentale della politica economica che la stabilizzazione anticiclica debba essere svolta dal settore pubblico. In questo caso, si tratta di erogare prestiti subordinati alle banche in periodi di crisi e chiederne il rimborso durante la ripresa. Una volta che l'economia sarà ripartita il capitale privato rientrerebbe in banca, rimpiazzando il capitale pubblico.
Il principio enunciato non è una semplice questione di teoria. È prassi. Si legga a questo proposito l'ultima relazione annuale della Banca d'Italia: "Il divario negativo di capitalizzazione dei nostri intermediari rispetto alla media europea, scesa a circa 2 punti percentuali, riflette in ampia misura le massicce ricapitalizzazioni bancarie effettuate con fondi pubblici in altri paesi. Lo scorso dicembre il sostegno dello Stato alle banche ammontava all'1,8% del Pil in Germania, al 4,3% in Belgio, al 5,1% nei Paesi Bassi, al 5,5% in Spagna, al 40% in Irlanda. In Italia l'analoga quota è pari allo 0,3% includendo gli interventi per il Mps".
Il governatore Visco cita anche l'autorità bancaria europea che raccomanda l'intervento di mezzi patrimoniali pubblici straordinari e temporanei!
L'Italia, quindi, è indietro rispetto agli altri Paesi dell'Eurozona. Basterebbe fare un modesto catching-up dell'1% del Pil (portandoci cioè all'1,3% del Pil, livello molto inferiore a quello della Germania), per risanare il patrimonio delle banche italiane in crisi e rilanciare l'economia con maggiori prestiti. Questo intervento pubblico, che in valori assoluti significherebbe 17-18 miliardi di euro, potrebbe essere gestito costituendo presso la Cassa depositi e prestiti un buffer stock di capitale da investire sotto forma di prestiti subordinati a tassi equiparati al costo medio del debito pubblico.
L'intervento pubblico a sostegno delle banche è una azione impopolare in Italia. Lo è in gran parte perché è stata alimentata in modo miope una campagna contro le banche "speculatrici". Ma i fatti dicono che, a parte casi di malversazione (Mps docet, che però ha ottenuto l'intervento pubblico), le banche italiane non sono state responsabili della crisi attuale. Laddove le banche sono state considerate responsabili, come negli Usa e nel Regno Unito, i governi sono intervenuti pesantemente, addirittura con nazionalizzazioni temporanee.
L'alternativa all'intervento pubblico temporaneo è vendere le banche all'estero. Sarebbero le banche tedesche o francesi, risanate con fondi pubblici, le più quotate a fare shopping di banche italiane. Non si tratta di difendere l'italianità della proprietà banche, bensì di non essere vittime dei propri pregiudizi. Basta vedere come Usa e Regno Unito, Paesi paladini del liberismo economico, sono ricorse alle nazionalizzazioni temporanee delle loro principali banche. Hanno salvato le banche per salvare l'economia. Noi chiediamo all'economia in crisi di salvare le banche.
La miscela composta da più capitale pubblico, più tempo e più flessibilità è fondamentale per ravvivare l'economia italiana. L'importanza dell'intervento pubblico è riconosciuta in Germania, dove accanto alle grandi banche esiste una cintura di piccole e medie banche, ben protette da capitale pubblico in casi di necessità. È quanto meno singolare che proprio in Italia, il Paese prototipo della piccole e medie imprese, sfugga la logica di considerare un obiettivo pubblico mantenere vitale il rapporto fra banche e sviluppo locale.
Pietro Alessandrini e Michele Fratianni sono docenti dell'Università politecnica delle Marche
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27 luglio 2013